sabato, gennaio 26, 2013

A day in Tahrir.

Ciao ragazzi. Come sapete, ieri pomeriggio a Tahrir c'ero anch'io.
Non posso nascondere che è stato emozionante essere insieme a centinaia di migliaia di persone che reclamano libertà, dignità e giustizia sociale. Certo, come ha ammesso un attivista, ora bisogna mettere in pratica queste parole, perché gli slogan non mantengono mai le loro promesse.
Ma l'attuale governo, guidato dai Fratelli Musulmani e dal presidente Mohamed Morsi, non sembra in grado ci portare il cambiamento sperato.
Certo il discorso è molto complesso, il Fratelli Musulmani stanno incontrando una resistenza incredibile a livello di apparati dello stato. I funzionari ministeriali si rifiutano di applicare le direttive che provengono dall'alto, i giudici prendono di mira ogni provvedimento del Presidente e del Parlamento (...qualcuno griderebbe ai giudici comunisti), l'esercito non cede un millimetro sulle proprie prerogative. Non c'è da stupirsi, lo Stato egiziano è ben più antico dei Fratelli Musulmani, e negli ultimi ottant'anni si è nutrito di un viscerale anti-islamismo, particolarmente a partire dal colpo di stato degli Ufficiali Liberi del 1952.
Ad ogni modo, i Fratelli Musulmani, piuttosto che tentare la via del compromesso e del cambiamento graduale, sono andati al muro contro muro, dando l'impressione, più che altro, di voler regolare i loro conti con lo Stato. Il risultato è stato la paralisi, mentre il Paese sprofonda in un crisi economica gravissima.
E' per questo che la gente è arrabbiata e chiede la rimozione del Presidente. Personalmente, non credo che gioverebbe, porterebbe ulteriore instabilità e rovescerebbe semplicemente la situazione: dal giorno dopo, avremmo i Fratelli Musulmani in piazza a protestare contro un eventuale presidente liberale, come minimo per vendicarsi della sorte toccata al loro primo presidente. Sono ancora tra quelli che pensano che un presidente democraticamente eletto debba governare fino alla fine del suo mandato, e poi semmai essere cacciato con il voto. Certo, quando commette gesti come la dichiarazione costituzionale dello scorso 22 novembre, in cui praticamente diceva: "buongiorno cittadini, da oggi siete miei sudditi", non legittima molto le sue credenziali democratiche. E' per questo che la pressione della piazza è importante, anche se purtroppo, quasi sempre, finisce per degenerare in violenza.
Ma le mie sono solo opinioni, sta agli Egiziani, adesso, costruirsi il loro futuro.

Per chi volesse leggere un commento degli avvenimenti di ieri, qui potete trovare il mio reportage per Famiglia Cristiana on-line.

martedì, gennaio 22, 2013

"Non ripiegati, ma aperti". Intervista con mons. Adel Zaki

Ho avuto occasione recentemente di incontrare mons. Adel Zaki, vescovo dei cattolici latini del Cairo, e riporto qui alcuni estratti del nostro dialogo. Come dice lui stesso, i cattolici formano una minoranza nella minoranza, essendo la maggioranza dei cristiani appartenenti alla chiesa copta ortodossa.
E' stato un incontro particolarmente significativo visto il difficile momento che stanno attraversando le chiese egiziane, frustrate dalla presa del potere degli islamisti e impaurite di ciò che potrà accadere in futuro. Eppure, come emerge da questa intervista, questi sviluppi stanno avendo come conseguenza imprevista quella di spigere i cristiani a mettere da parte le divisioni per lavorare insieme e avere una sola voce. Non è una forma di unità "contro" nè solamente una posizione difensiva, ma è la presa di consapevolezza che una vera testimonianza cristiana è possibile solo nell'unità. Ed è nei momenti di difficoltà che, spesso, gli uomini fanno compiere alla storia balzi inaspettati.





SD - Intanto le chiederei di farmi un breve e sintetico quadro della comunità cattolica e più in generale della presenza cristiana in Egitto.

AZ - La comunità cattolica qui in Egitto è composta da sette riti, quella copta cattolica è la prima, poi vengono quelle melchita, latina, siriaca, caldea, armena e infine quella greco cattolica. I cattolici a livello di statistiche sono una minoranza nella minoranza, un piccolo gregge, un quarto di milione, ma la loro importanza non sta nel numero quanto nell’efficacia della loro presenza in questa terra d'Egitto. Tramite le scuole, la promozione umana, dispensari, orfanotrofi, vi è una presenza efficace e forte, che incide sulla vita della popolazione. Queste attività sono aperte a tutti, senza distinzioni, a cristiani e musulmani. Ripeto, questa presenza è numericamente esigua ma è come il lievito nella pasta, come dice il Vangelo, è il granellino di senapa. 

SD - A quando risale l'evangelizzazione cattolica dell'Egitto?

AZ – Risale a San Francesco d'Assisi, nel 1219 venne a Damietta e compì il suo storico incontro con il sultano Malek el-Kamel. Da quella data i missionari hanno cercato di mantenere una presenza qui, innanzitutto in funzione della Terrasanta, ma piano piano si sono radicati qui in Egitto. I missionari si sono inculturati, imparando la lingua, accettando le tradizioni, per questo è nata una provincia francescana egiziana, e attualmente non c'è nessun italiano, sono tutti francescani egiziani.

SD - Francesco fu in un certo senso un pioniere del dialogo. Nel tempo delle crociate, in un momento di forte scontro tra cristiani e musulmani, andò ad incontrare il Sultano. Cosa significa oggi dialogo qui in Egitto, in un momento in cui nuovamente si avverte forte lo scontro tra cristiani e musulmani a livello mondiale?

AZ – Davvero Francesco è stato, se così possiamo dire, un profeta del dialogo. Il dialogo è nato sul rispetto dell'altro, delle sue credenze, abitudini, sul rispetto dell'uomo. Oggi in Egitto è molto difficile il dialogo a livello intellettuale, si coltiva piuttosto il dialogo della vita. Noi viviamo gomito a gomito ogni giorno con i musulmani, è un dialogo fatto di esempio, di condivisione, di piena solidarietà in tutte le circostanze, sia quelle gioiose che quelle sofferte. È il dialogo di ogni giorno, della vita. In questo sta la preziosità della nostra presenza. La presenza di per sé, anche senza parlare, senza proclamare, diffondere il Vangelo, è di per sé un apostolato prezioso. Essere lì in mezzo alla gente, in mezzo ai musulmani, con tanto rispetto per la loro religione e le loro cose sacre. Si cerca sempre, come ci ha detto Francesco, di rendere ragione della nostra fede quando ci viene domandato. Si proclama il Vangelo nel silenzio, nell'esempio della vita, nella presenza continua.

SD - Siamo nella settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, come si sente la mancanza di unità quando si è minoranza?

AZ - Nell'unità c'è la forza, noi sperimentiamo veramente che in questa situazione noi non diamo la testimonianza dovuta dal cristianesimo. Però ci sono delle buone speranze con il nuovo papa copto, Tawadros II, che ha un senso pastorale, ecclesiastico, un'apertura. Tant'è vero che in varie circostanze lui ha manifestato questa apertura, questa disposizione ad accettare e ad accogliere l'altro. Parlando ad esempio del Natale non dice “il 7 gennaio”, ma dice che le feste natalizie in cominciano il 25 dicembre e si prolungano fino al 7 gennaio. E poi lui ha pubblicamente espresso il desiderio di voler incominciare incontri mensili di avvicinamento, per scambiarsi le idee e i punti di vista su qualsiasi situazione o problematica. Il 18 febbraio, in un clima di festa, proclamerà la fondazione di un consiglio che riunirà permanentemente le cinque famiglie cristiane – cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani e melchiti ortodossi. Una cosa simile al consiglio delle chiese cristiane del Medio Oriente ma basato in Egitto, per arrivare ad avere essere una sola voce, un atteggiamento di unione a nome della Chiesa. Lui sarà responsabile di questo consiglio per i primi tre anni e poi a turno lo saranno gli altri.

SD – Quali sono i rapporti con la Chiesa copta, una Chiesa che storicamente ha una forte identità?

AZ - Qui la maggioranza dei cristiani, che oscilla da 8 a 12 milioni, alcuni dicono da 10 a 18, sono cristiani ortodossi. La presenza degli ortodossi e certo più marcata nella società. Come dicevo, ci sono segnali positivi nel rapporto con loro. È la prima volta che per le feste natalizie viene una rappresentanza della Chiesa ortodossa a farci gli auguri in tutte le chiese cattoliche, mandata dal loro papa, sia ai latini, che ai greci, che ai maroniti, a tutti. Ha mandato delle delegazioni per fare gli auguri di Natale, così come anche noi abbiamo partecipato alla sua intronizzazione, e gli abbiamo portato gli auguri per le festività natalizie nel monastero dove lui è stato ultimamente. Abbiamo grandi speranze su questo papa.

SD - Quest'anno ricordiamo i 50 anni dall'apertura del concilio Vaticano II, che portò ad una riscoperta da delle chiese orientali. Che cosa rimane e che cosa resta da attuare di questa eredità?

AZ - Si è data poi una riscoperta dei documenti del Concilio, che non erano stati abbastanza valorizzati negli anni passati, e questo anniversario è stato per noi un motivo per riscoprirli. Ciò non riguarda solo il discorso del Concilio sui riti orientali, ma anche ciò che il Concilio ha proclamato sull'ecumenismo, sul dialogo con le altre religioni. Questo è veramente un tempo prezioso e importante che ha risvegliato nuovamente e messo in risalto questa volontà ferma di camminare insieme e di fare dei passi concreti tra le chiese. Facilmente qui in Egitto si tende al ripiegamento, questo è stato per noi un motivo per riaprirci. Non ripiegarsi ma aprirsi di più.

SD - Una realtà di cui si sente parlare molto spesso è quella dell'emigrazione dei cristiani dalle terre a maggioranza musulmana. Qual è l'entità del fenomeno qui in Egitto, quali fasce della popolazione tocca?

AZ - Questo tema è fonte di grande sofferenza, proprio perché come pastori sentiamo questo problema nella convinzione che il posto lasciato dai nostri fedeli diventa un vuoto che non viene riempito. I fedeli che vengono meno sono i fedeli che stanno bene, quelli che hanno delle buone posizioni. Paradossalmente quelli che ogni giorno soffrono e si affaticano continuano a rimanere, mentre quelli più agiati, quelli che dispongono di un livello culturale più elevato, emigrano perché guardano al futuro con pessimismo, perché non vedono chiarezza  e vedono che la situazione sta peggiorando. E siccome vogliono garantire il benessere per il futuro dei loro figli, lasciano il paese. Ma noi cerchiamo in tutte le maniere di convincerli a restare, certo è un diritto dell'uomo emigrare, non si può impedire a nessuno, ma noi non incoraggiamo l'emigrazione, la sconsigliamo. Ciononostante, dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011, più di 150.000 famiglie sono emigrate. Questa è una perdita continua di forze, persone, testimoni.


Noi però viviamo di fede e di speranza, e sappiamo che la fede non è quando le cose vanno bene, ma è nell'impossibile che Dio opera. E abbiamo questa fiducia in lui, che ci ha detto: “non temere piccolo gregge”. Noi abbiamo questa speranza. Questa terra è stata benedetta dal Signore. Nel libro del profeta Isaia si legge "dall'Egitto ho chiamato il mio figlio", il popolo egiziano è benedetto, la Sacra Famiglia è stata qui in Egitto. L'Egitto ospitò Abramo, Geremia e tanti altri uomini della Bibbia. E se fino ad ora questo cristianesimo vive in Egitto è merito della presenza del Signore e del monachesimo, che ha saputo difendere la fede. Lei vede che in Marocco, in Tunisia, in Algeria non ci sono più cristiani autoctoni, nonostante questi Paesi abbiano dato dei Padri alla Chiesa.
Ancora questo cristianesimo resiste e domanda al Signore di dargli forza e coraggio, per questa testimonianza di fede e di speranza.

sabato, gennaio 19, 2013

Il Cairo. Una città-mondo.

Quella che segue è una delle migliori descrizioni che ho trovato di questa città.
Anche se è difficile descriverla.
Le cifre peraltro si riferiscono a poco meno di quindici anni fa, quindi probabilmente oggi sono ben superiori a quelle riportate. Ma l'idea che si ricava girando per le strade è proprio quella descritta. 

Minareti e parabole
Il Cairo è, secondo le Nazioni Unite, l'agglomerato urbano più densamente popolato al mondo. In media, questa città comprime 70.000 persone in ognuna delle sue duecento miglia quadrate, imprigionando i suoi cittadini più strettamente di quanto non faccia la piccola isola di Manhattan. Nei distretti centrali come Mushki e Bab al-Shar'iyyah la densità è di 300.000 abitanti per miglio quadrato, una cifra che raggiunge 700.000 in alcune strade laterali. Nella stragrande maggioranza dei casi questi numeri non si riferiscono a grattacieli ma a vicoli pieni di piccoli caseggiati che potrebbero essere tranquillamente magazzini del secolo scorso. In tali condizioni, con tre e talvolta cinque persone in una minuscola camera, le famiglie si danno i turni per mangiare e dormire. Anche le scuole lavorano su tre turni, e comunque devono comprimere cinquanta, sessanta e talvolta ottanta studenti in una classe.
La pressione della popolazione tocca ogni aspetto della vita al Cairo. Ha portato il prezzo della terra a toccare la cifra di 500 dollari per piede quadrato, rendendo milionari gli speculatori e soffocando i sogni di indipendenza dei giovani. Sovraccarica i servizi pubblici e inonda le arterie della città di spazzatura non raccolta, ma limita il crimine ostruendo le vie di fuga. [...].

Il mercato di Khan al-Khalil
L'affollamento spinge i cairoti fuori dalle loro case. Ma dove andare? Vi sono solo pochi, preziosi, spazi verdi. Fino ad un recente "programma d'urto" la città aveva solamente cinque pollici quadrati di parco per abitante, che è come dire meno dell'area occupata dal piede di un adulto. Piuttosto che stare immobili come ballerini di flamenco, i cairoti si riversano nelle strade. Trasformano i marciapiedi e le carreggiate in luoghi di commercio e divertimento, convertendoli in parchi giochi, ristoranti, e moschee all'aperto. La strada è anche il luogo dove circa 40.000 bambini senzatetto dormono, e dove gli abitanti del Cairo lottano contro 1 milione di automobili e 5.000 carretti trainati da asini. [...].
L'affollamento genera rumore e stress, inquinamento e tensione sociale. Questa atmosfera da carnevale può essere irritante se non sei dello spirito giusto. Se ne lamentano gli stessi cairoti. Ma segretamente, e in maniera complice, sono in buona parte dipendenti dal vivere in perpetuo contatto con uno spettacolo infinito.[...]
In Egitto, tutte le strade portano alla capitale - il che è anche logico dal momento che circa metà delle automobili del paese e metà della sua industria si trovano qui. Un egiziano su quattro vive nell'agglomerato urbano intorno al Cairo, e molti di più vi aspirano. Ne hanno buone ragioni. I cairoti vivono di più e mangiano meglio dei loro cugini in campagna. Il reddito pro capite è più alto del 25%, la povertà più bassa del 30%, e solo un terzo rispetto alla campagna è la quantità di bambini sotto i cinque anni che muoiono di malattie. Nell'impoverito Alto Egitto il tasso di alfabetizzazione è la metà di quello del Cairo. Non ci sono quotidiani fuori dal Cairo, e i numerosi giornali che qui vengono stampati dedicano poco spazio nelle loro pagine principali a tutto ciò che accade nelle altre parti del paese. Anche nello sport il Cairo regna suprema. I suoi due club, l'al-Ahli e lo Zamalek, hanno vinto tutti gli scudetti degli ultimi cinquant'anni, tranne che due volte.
Dopo 5000 anni di civilizzazione, il sistema politico egiziano rimane piramidale. Il Cairo si trova indubbiamente al suo vertice. Il Ministero dell'irrigazione decide quanta acqua abbia a disposizione ciascun contadino per il suo raccolto. Il Ministero degli affari religiosi decide quale imam predicherà in quale moschea, e che cosa dirà. Il Ministero dell'interno sceglie i sindaci di tutti i 4000 villaggi egiziani. Il Presidente, che qui risiede, nomina il governatore di tutte le ventisei province e i rettori di tutte le dodici università nazionali, quattro delle quali, naturalmente, sono al Cairo.

Tratto e tradotto da Cairo. The City Victorious, di Max Rodenbeck, 1999.

venerdì, gennaio 18, 2013

Ritratti del Cairo

Nei momenti liberi c'è il tempo per qualche fotografia...

Mali: una guerra africana? Tutt'altro.



Fino a pochi giorni fa nessuno sapeva nemmeno dove fosse il Mali. Una delle città-chiave dell’attuale campagna militare francese, Timbuktu, era sinonimo di terra di nessuno. Oggi, di fronte ad una guerra che ci coinvolge direttamente, ci scopriamo disorientati come spesso accade di fronte ai conflitti africani, cui si danno tante etichette – guerre tribali, etniche, del petrolio – ma poche spiegazioni.
In realtà, ciò che sta accadendo ha radici profonde. Da molti anni gli emuli di al-Qaeda avevano preso possesso di quella “terra di nessuno” che è la Somalia. Eppure in pochi si preoccupavano che ciò si stesse replicando anche in quel grande mare di sabbia che è il Sahara. Forse alcuni pensavano che fosse il posto giusto dove confinare i terroristi. In realtà, come avviene da secoli, il Sahara è la porta del Mediterraneo. Di qui transita chi sogna l’Europa, arricchendo mercanti di uomini senza scrupoli. Di qui passa buona parte della droga che, dal Sudamerica, giunge in Europa dopo aver viaggiato su piccoli aerei dal Sudamerica ed essere atterrata sulle coste dell’Africa occidentale.
Il Mali. In rosso l'area controllata dai ribelli.
Storicamente, il Sahara è la terra dei Tuareg, gli “uomini blu”, nomadi fieri della propria indipendenza culturale ma emarginati negli assetti del potere e nella distribuzione delle risorse. Per ottenere pari diritti e autonomia, i Tuareg hanno combattuto una lunga guerra contro il governo del Mali. Beffati dai tanti accordi firmati e rimasti sulla carta, hanno approfittato del saccheggio degli arsenali libici per dare il via, nel marzo del 2012, ad un’offensiva che ha portato alla proclamazione di uno Stato tuareg indipendente, l’Azawad, nel nord del Mali.
La nascita dell’Azawad – che, detto per inciso, non è stato riconosciuto da nessuno è non è uno Stato a tutti gli effetti – ha segnato il crollo della democrazia in Mali, un’esperienza che, pur con molti limiti, era durata vent’anni. I militari sono intervenuti deponendo il Presidente e assumendo il potere, dovendo però presto instaurare un nuovo governo civile a causa delle pressioni internazionali. Essi sono però rimasti dietro le quinte i veri detentori del potere, come ha dimostrato la nuova deposizione, a dicembre, del Presidente che loro stessi avevano nominato, e la sua sostituzione con un candidato più docile. 
E' nel corso della campagna militare per la conquista dell’Azawad che si è realizzata la saldatura tra Tuareg ed islamisti. Questi ultimi, meglio equipaggiati e finanziati – grazie soprattutto all’”industria” dei rapimenti ed al contrabbando – hanno però rotto l’alleanza per assumere il controllo diretto della regione e governare le città in base alla sharia.
La diffusione dell’islamismo radicale nel Sahara va ricercata in Algeria. Furono infatti alcuni membri del Gruppo Islamico Armato (GIA) algerino, che negli anni ’90 combatté – e perse – una cruentissima guerra civile, a fondare il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, poi rinominato al-Qaeda nel Magheb Islamico (AQMI) assumendo il franchising del terrore dal movimento di Osama bin Laden. Tra di essi spicca Mokhtar Belmokhtar, alias “Mokhtar il guercio”, veterano dell’Afghanistan (quando la jihad era contro i sovietici), della guerra algerina e ora leader dell’organizzazione. Ma AQMI non è l’unica formazione islamista presente sullo scenario. È la più attiva in Algeria, mentre in Mali la fanno da padroni Ansar Dine, guidata da un ex-leader della ribellione Tuareg, Iyad Ghali, e il Movimento per l’Unicità e la Jihad nell’Africa Occidentale (MUJAO), nato da una scissione all’interno di AQMI proprio a causa della predominanza degli algerini nella leadership del movimento.
I raid francesi hanno preso di mira soprattutto le postazioni del MUJAO, mentre Ansar Dine, che da novembre aveva avviato colloqui di pace con il governo di Bamako, ne ha dichiarato la sospensione per prepararsi ad una campagna di difesa.
La presa di ostaggi in un impianto di gas nel sud-est segna l’entrata in gioco di AQMI, che fin’ora era stata a guardare. È un chiaro tentativo di estendere il fronte di combattimento e provocare i francesi su un terreno che, per ragioni storiche, è particolarmente delicato per Parigi. Il tragico esito del blitz fa aumentare esponenzialmente il costo politico di una guerra che fino ad ora Hollande è riuscito a spacciare come “giusta”.
Quella a cui stiamo assistendo è quindi una guerra che ha origini locali – le rivendicazioni dei Tuareg, l’irrisolta questione algerina – ma che è stata ormai assorbita nelle logiche della “guerra al terrore”. Questo renderà molto più difficile una sua vera soluzione. Si poteva intervenire con la diplomazia prima che il conflitto si internazionalizzasse? Certo. Ma un intervento militare, reso inevitabile, è più conveniente per tutti. Da un lato permette ai militanti islamisti di invocare la jihad contro l’Occidente. Dall’altro consente alla Francia di dare nuovo slancio e legittimità alla propria politica africana, dopo il discusso intervento in Costa d’Avorio dell’anno scorso, e forse è solo l'inizio di un disegno più ambizioso, come sostiene Gian Paolo Calchi Novati. Se a ciò si aggiunge la necessità degli apparati militari americani ed europei di reimpiegare uomini e tecnologie in via di smobilitazione in Afghanistan, si capisce come a pochi interessi, veramente, il Mali.

domenica, dicembre 30, 2012

Monti Nuba: "Se non sono le bombe, sarà la fame ad ucciderci".

Tutti sappiamo che esistono guerre più o meno dimenticate, e tutti in fondo accettiamo questo dato con passiva rassegnazione.
Forse non potremo fare molto per cancellare la parola "guerre", anche se non ne sono così sicuro. Quello che è certo è che ognuno di noi può cancellare la parola "dimenticate", semplicemente ricordandole.
Tra queste situazioni quella che personalmente mi tocca di più è quella dei monti Nuba, o Sud Kordofan, una regione del Sudan dove dal giugno 2011 è in corso una guerra civile in cui la distinzione tra civili e combattenti è inesistente. Visto il mio legame con il Sudan, quasi quotidianamente ricevo aggiornamenti sulla situazione in Sud Kordofan. Bombardamenti indiscriminati, villaggi interi costretti alla fame, migliaia di persone che cercano di fuggire nel vicino Sud Sudan, chiese e moschee bruciate. Tutto senza che una sola parola esca sui grandi media nazionali e internazionali. Il governo di Khartoum bombarda una parte della propria popolazione che ritiene gli sia nemica, esattamente come aveva minacciato di fare Gheddafi con la gente di Bengasi. Non sto invocando un intervento militare in Sud Kordofan, basterebbe una seria iniziativa per creare almeno dei corridoi umanitari attraverso cui l'assistenza di base possa raggiungere la popolazione civile.Vi chiedo di prendervi cinque minuti, e guardare questo breve filmato che mostra, senza indugiare su tratti crudi o retorici, le disperate condizioni in cui è costretta a vivere questa gente.
Per chi si chiedesse: perche? La situazione è complessa da spiegare. I Nuba sono una popolazione autoctona, storicamente emarginata dai governi che si sono succeduti al potere a Khartoum. Custodi gelosi della propria identità culturale e del loro patrimonio linguistico, sono entrati in conflitto con i nomadi arabi che si sono insediati nelle zone pianeggianti, trovandosi costretti a rifugiarsi sulle montagne e le colline a sud. Tenete sempre presente che interpretare ciò che succede in Sudan come un conflitto tra arabi e africani è sempre molto semplificatorio: giusto per fare un esempio, le donne nuba che sentite parlare nel video parlano arabo. I problemi sono ben più complessi che un conflitto identitario: sono in gioco terre, risorse scarse, diritto all'autonomia politica, sfruttamento delle risorse da parte del governo centrale e molti altri fattori.
Il problema sorge quando i Nuba aderiscono al SPLM/A, il movimento di guerriglia fondato in Sud Sudan nel 1983 da John Garang. Il SPLM/A, grazie anche al fondamentale apporto di popolazioni del Nord come i Nuba, riuscì a non farsi mai etichettare come guerriglia sudista secessionista: Garang rifiutò sempre di limitarsi a rivendicare maggiori diritti per il Sud, dichiarando che il SPLM/A lottava per un "nuovo Sudan", democratico, plurale e laico, dove tutte le diverse identità che componevano il Paese avrebbero trovato posto.
Come potete vedere dalla cartina, il Sud Kordofan si trova proprio al di sopra del confine tra Nord e Sud Sudan. I Nuba, trovandosi sulla linea del fronte, furono tra le popolazioni più colpite dalla distruzione della guerra.
Ciò non è bastato a dare forza alle loro rivendicazioni. Il "nuovo Sudan" si è però rivelato, nella realtà, una chimera, e alla fine il SPLM/A ha accettato di ripiegare sull'obiettivo, più realisticamente conseguibile, dell'indipendenza per il Sud Sudan, che è giunta nel luglio 2011. A questo punto però i nordisti che avevano combattuto per il SPLM/A si sono trovati dalla parte sbagliata del confine: traditi dai loro compagni di lotta (il SPLM/A) e accusati da Khartoum di avere parteggiato per il nemico. Gli accordi di pace firmati nel 2005 tra il Governo e il SPLM/A prevedevano che in Sud Kordofan e nel Nilo Blu - un'altra regione dove il SPLM/A aveva raccolto numerosi adepti - si svolgessero delle "consultazioni popolari" di valore meramente consultivo che però avrebbero potuto riaprire il dibattito sul destino di queste due regioni, lasciando aperta la prospettiva di una qualche forma di autonomia politica.
Nel Nilo Blu la consultazione si è tenuta, in Sud Kordofa no, ma l'esito è stato praticamente lo stesso: Khartoum ha riaffermato il proprio pugno di ferro su entrambe le regioni senza troppi tentennamenti. La miccia che ha dato le fiamme all'incendio è stato il problema del disarmo dei combattenti del SPLM/A. L'esercito sudanese ha infatti ordinato ai combattenti nordisti del SPLM/A di disarmare, ma questi si sono rifiutati motivando il rifuto con la necessità di proteggere le proprie comunità (in particolare i Nuba). Più o meno nello stesso periodo, si stavano tenendo le elezioni per i governatori regionali: nel Nilo Blu ha vinto un esponente del SPLM/A, ribattezzatosi SPLM-N (dove la "N" sta per "Nord"), nel Sud Kordofan ha vinto il candidato del Governo in condizioni tutt'altro che trasparenti. Notate bene che il personaggio in quesitone è Ahmed Haroun, indagato dalla Corte Penale Internazionale per i crimini commessi in Darfur. Era infatti Ministro per gli Affari Umanitari a Khartoum proprio nel momento di massimo picco della crisi in Darfur. In questa miscela esplosiva, al primo tentativo di disarmo forzoso dei combattenti del SPLM/A da parte dell'esercito si è avuta un'escalation militare.
La popolazione civile è stata da subito presa di mira dall'esercito perché, come si può ben capire da questa breve spiegazione, buona parte dei Nuba e alcune popolazioni del Nilo Azzurro parteggiano apertamente per il SPLM/A.
Nel filmato sentirete che si parla di "Antonov". Sono aerei militari russi, solitamente utilizzati per trasportare truppe o rifornimenti, che invece in Sudan vengono utilizzati lanciando le bombe direttamente giù dal portellone. E' un metodo tristemente famoso perché è emblematico della volontà del Governo di colpire tutti, in quanto bombardare con gli Antonov non garantisce nessuna precisione sul bersaglio da colpire.
Si potrebbero dire molte altre cose, ma capisco che già ce ne sia troppo per i lettori di un blog. Spero però che vorrete condividere questo articolo su Facebook, Twitter, mandarlo via email. E' uno dei modi che abbiamo per far sì che questa guerra sia un po' meno "dimenticata".