martedì, gennaio 22, 2013

"Non ripiegati, ma aperti". Intervista con mons. Adel Zaki

Ho avuto occasione recentemente di incontrare mons. Adel Zaki, vescovo dei cattolici latini del Cairo, e riporto qui alcuni estratti del nostro dialogo. Come dice lui stesso, i cattolici formano una minoranza nella minoranza, essendo la maggioranza dei cristiani appartenenti alla chiesa copta ortodossa.
E' stato un incontro particolarmente significativo visto il difficile momento che stanno attraversando le chiese egiziane, frustrate dalla presa del potere degli islamisti e impaurite di ciò che potrà accadere in futuro. Eppure, come emerge da questa intervista, questi sviluppi stanno avendo come conseguenza imprevista quella di spigere i cristiani a mettere da parte le divisioni per lavorare insieme e avere una sola voce. Non è una forma di unità "contro" nè solamente una posizione difensiva, ma è la presa di consapevolezza che una vera testimonianza cristiana è possibile solo nell'unità. Ed è nei momenti di difficoltà che, spesso, gli uomini fanno compiere alla storia balzi inaspettati.





SD - Intanto le chiederei di farmi un breve e sintetico quadro della comunità cattolica e più in generale della presenza cristiana in Egitto.

AZ - La comunità cattolica qui in Egitto è composta da sette riti, quella copta cattolica è la prima, poi vengono quelle melchita, latina, siriaca, caldea, armena e infine quella greco cattolica. I cattolici a livello di statistiche sono una minoranza nella minoranza, un piccolo gregge, un quarto di milione, ma la loro importanza non sta nel numero quanto nell’efficacia della loro presenza in questa terra d'Egitto. Tramite le scuole, la promozione umana, dispensari, orfanotrofi, vi è una presenza efficace e forte, che incide sulla vita della popolazione. Queste attività sono aperte a tutti, senza distinzioni, a cristiani e musulmani. Ripeto, questa presenza è numericamente esigua ma è come il lievito nella pasta, come dice il Vangelo, è il granellino di senapa. 

SD - A quando risale l'evangelizzazione cattolica dell'Egitto?

AZ – Risale a San Francesco d'Assisi, nel 1219 venne a Damietta e compì il suo storico incontro con il sultano Malek el-Kamel. Da quella data i missionari hanno cercato di mantenere una presenza qui, innanzitutto in funzione della Terrasanta, ma piano piano si sono radicati qui in Egitto. I missionari si sono inculturati, imparando la lingua, accettando le tradizioni, per questo è nata una provincia francescana egiziana, e attualmente non c'è nessun italiano, sono tutti francescani egiziani.

SD - Francesco fu in un certo senso un pioniere del dialogo. Nel tempo delle crociate, in un momento di forte scontro tra cristiani e musulmani, andò ad incontrare il Sultano. Cosa significa oggi dialogo qui in Egitto, in un momento in cui nuovamente si avverte forte lo scontro tra cristiani e musulmani a livello mondiale?

AZ – Davvero Francesco è stato, se così possiamo dire, un profeta del dialogo. Il dialogo è nato sul rispetto dell'altro, delle sue credenze, abitudini, sul rispetto dell'uomo. Oggi in Egitto è molto difficile il dialogo a livello intellettuale, si coltiva piuttosto il dialogo della vita. Noi viviamo gomito a gomito ogni giorno con i musulmani, è un dialogo fatto di esempio, di condivisione, di piena solidarietà in tutte le circostanze, sia quelle gioiose che quelle sofferte. È il dialogo di ogni giorno, della vita. In questo sta la preziosità della nostra presenza. La presenza di per sé, anche senza parlare, senza proclamare, diffondere il Vangelo, è di per sé un apostolato prezioso. Essere lì in mezzo alla gente, in mezzo ai musulmani, con tanto rispetto per la loro religione e le loro cose sacre. Si cerca sempre, come ci ha detto Francesco, di rendere ragione della nostra fede quando ci viene domandato. Si proclama il Vangelo nel silenzio, nell'esempio della vita, nella presenza continua.

SD - Siamo nella settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, come si sente la mancanza di unità quando si è minoranza?

AZ - Nell'unità c'è la forza, noi sperimentiamo veramente che in questa situazione noi non diamo la testimonianza dovuta dal cristianesimo. Però ci sono delle buone speranze con il nuovo papa copto, Tawadros II, che ha un senso pastorale, ecclesiastico, un'apertura. Tant'è vero che in varie circostanze lui ha manifestato questa apertura, questa disposizione ad accettare e ad accogliere l'altro. Parlando ad esempio del Natale non dice “il 7 gennaio”, ma dice che le feste natalizie in cominciano il 25 dicembre e si prolungano fino al 7 gennaio. E poi lui ha pubblicamente espresso il desiderio di voler incominciare incontri mensili di avvicinamento, per scambiarsi le idee e i punti di vista su qualsiasi situazione o problematica. Il 18 febbraio, in un clima di festa, proclamerà la fondazione di un consiglio che riunirà permanentemente le cinque famiglie cristiane – cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani e melchiti ortodossi. Una cosa simile al consiglio delle chiese cristiane del Medio Oriente ma basato in Egitto, per arrivare ad avere essere una sola voce, un atteggiamento di unione a nome della Chiesa. Lui sarà responsabile di questo consiglio per i primi tre anni e poi a turno lo saranno gli altri.

SD – Quali sono i rapporti con la Chiesa copta, una Chiesa che storicamente ha una forte identità?

AZ - Qui la maggioranza dei cristiani, che oscilla da 8 a 12 milioni, alcuni dicono da 10 a 18, sono cristiani ortodossi. La presenza degli ortodossi e certo più marcata nella società. Come dicevo, ci sono segnali positivi nel rapporto con loro. È la prima volta che per le feste natalizie viene una rappresentanza della Chiesa ortodossa a farci gli auguri in tutte le chiese cattoliche, mandata dal loro papa, sia ai latini, che ai greci, che ai maroniti, a tutti. Ha mandato delle delegazioni per fare gli auguri di Natale, così come anche noi abbiamo partecipato alla sua intronizzazione, e gli abbiamo portato gli auguri per le festività natalizie nel monastero dove lui è stato ultimamente. Abbiamo grandi speranze su questo papa.

SD - Quest'anno ricordiamo i 50 anni dall'apertura del concilio Vaticano II, che portò ad una riscoperta da delle chiese orientali. Che cosa rimane e che cosa resta da attuare di questa eredità?

AZ - Si è data poi una riscoperta dei documenti del Concilio, che non erano stati abbastanza valorizzati negli anni passati, e questo anniversario è stato per noi un motivo per riscoprirli. Ciò non riguarda solo il discorso del Concilio sui riti orientali, ma anche ciò che il Concilio ha proclamato sull'ecumenismo, sul dialogo con le altre religioni. Questo è veramente un tempo prezioso e importante che ha risvegliato nuovamente e messo in risalto questa volontà ferma di camminare insieme e di fare dei passi concreti tra le chiese. Facilmente qui in Egitto si tende al ripiegamento, questo è stato per noi un motivo per riaprirci. Non ripiegarsi ma aprirsi di più.

SD - Una realtà di cui si sente parlare molto spesso è quella dell'emigrazione dei cristiani dalle terre a maggioranza musulmana. Qual è l'entità del fenomeno qui in Egitto, quali fasce della popolazione tocca?

AZ - Questo tema è fonte di grande sofferenza, proprio perché come pastori sentiamo questo problema nella convinzione che il posto lasciato dai nostri fedeli diventa un vuoto che non viene riempito. I fedeli che vengono meno sono i fedeli che stanno bene, quelli che hanno delle buone posizioni. Paradossalmente quelli che ogni giorno soffrono e si affaticano continuano a rimanere, mentre quelli più agiati, quelli che dispongono di un livello culturale più elevato, emigrano perché guardano al futuro con pessimismo, perché non vedono chiarezza  e vedono che la situazione sta peggiorando. E siccome vogliono garantire il benessere per il futuro dei loro figli, lasciano il paese. Ma noi cerchiamo in tutte le maniere di convincerli a restare, certo è un diritto dell'uomo emigrare, non si può impedire a nessuno, ma noi non incoraggiamo l'emigrazione, la sconsigliamo. Ciononostante, dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011, più di 150.000 famiglie sono emigrate. Questa è una perdita continua di forze, persone, testimoni.


Noi però viviamo di fede e di speranza, e sappiamo che la fede non è quando le cose vanno bene, ma è nell'impossibile che Dio opera. E abbiamo questa fiducia in lui, che ci ha detto: “non temere piccolo gregge”. Noi abbiamo questa speranza. Questa terra è stata benedetta dal Signore. Nel libro del profeta Isaia si legge "dall'Egitto ho chiamato il mio figlio", il popolo egiziano è benedetto, la Sacra Famiglia è stata qui in Egitto. L'Egitto ospitò Abramo, Geremia e tanti altri uomini della Bibbia. E se fino ad ora questo cristianesimo vive in Egitto è merito della presenza del Signore e del monachesimo, che ha saputo difendere la fede. Lei vede che in Marocco, in Tunisia, in Algeria non ci sono più cristiani autoctoni, nonostante questi Paesi abbiano dato dei Padri alla Chiesa.
Ancora questo cristianesimo resiste e domanda al Signore di dargli forza e coraggio, per questa testimonianza di fede e di speranza.

Nessun commento: