sabato, aprile 16, 2011

Gli eroi del mare sul volo degli sconfitti

Un bell'articolo dell'inviato della Stampa Domenico Quirico (di cui, confesso, non mi piace lo stile melodrammatico, ma i contenuti ci sono) sui migranti tunisini rimpatriati. Certo non esistono facili soluzioni e bacchette magiche per gestire i flussi migratori, tuttavia, come evidenzia l'articolo, i rimpatri non sono una soluzione efficace - come potrebbero sembrare a prima vista - e oltre a tutto sono molto costosi. Sono, insomma, uno specchietto per le allodole propagandistico, il classico secchiello con cui si cerca di svuotare il mare.
Parafrasando Dominique Green, verrebbe da dire che se tutti i soldi che vengono spesi per gestire gli immigrati con un approccio securitario-repressivo venissero usati per politiche concrete di integrazione, forse si otterrebbero risultati più efficaci.

Non lo sognava così il glorioso ritorno, Raduan: davvero non così. Lo disegnava nei sogni allegro e rumoroso, con le tasche piene, magari con la «Mecerdés» comprata in Europa e i parenti che venivano a fare festa, anche quelli che non vedeva da anni. Ma adesso che lui aveva fatto fortuna, laggiù in Europa, i parenti correvano per toccarlo come se fosse un amuleto. Sì, è vero: è tornato in aereo stavolta, come i signori. Non con il barcone sudicio con cui è partito da Zarzis la settimana scorsa e ha patito su quel legno le sue quaranta ore di tenebra e di tempesta.
Ma il suo portafoglio è vuoto, più vuoto di quando era partito, e non ci sono più i mille euro pagati per un viaggio inutile; anche i vestiti che ha indosso sono un regalo, un regalo, l’unico, di Lampedusa. Ha perso molto in cinque giorni Raduan, che 48 ore di ritardo hanno separato crudelmente dal fragile permesso di soggiorno concesso ai suoi ventimila connazionali e consegnato alla categoria del rimpatriato. Anzi: molto gli è stato rubato.
Quando è partito era certo che la giovinezza è benedetta, che è un rischio da correre, ma che quel rischio è benedetto anch’esso. La felicità è una specie di fierezza, di allegria, di speranza assurda puramente carnale, la forma carnale della speranza. Era felice prima. Adesso invece ha la stanchezza dell’anima negli occhi. Non sapeva quando si è imbarcato che due giorni prima era stato firmato un accordo che cancellava la sua uscita di sicurezza. Il suo paradiso, la sua Europa è durata 48 ore: troppo poco per pagarlo mille euro.
Non li fanno arrivare i vinti di Lampedusa, le prime vittime del Muro amministrativo che sbarra il Mediterraneo, nell’aeroporto dei turisti, dei viaggiatori normali. Sì, questo paese di poveri si vergogna dei suoi emigranti che fa rientrare alla spicciolata, di soppiatto, come criminali. Li fanno scendere al terminal 2, ben separato, quello da cui partono i voli del pellegrinaggio verso la Mecca. C’è fretta di cancellarli, farli sparire, dimenticarli: in teoria sono responsabili del reato di emigrazione clandestina.
Ma nessuno li perseguirà: basta mezz’ora per identificarli e poi via, con dei pulmini già pronti per disperderli ai quattro angoli del paese, dove non faranno massa e rumore. Si incrociano i passeggeri di questo terminal: i vecchi con il cartellino di identificazione appeso al collo che piangono già di gioia, che stasera saranno a Gedda. E i ragazzi, che piangono anche loro, perché sono naufraghi della condizione umana, che qui appare più spoglia, quasi a nudo. Sì, fanno bene a mescolarli. Gli uni e gli altri hanno bisogno di Dio: immensamente, della sua grazia, delle sue tentazioni.
I trenta passeggeri del volo quotidiano da Lampedusa, quando sbucano dalla porta degli arrivi e affogano nel sole del piazzale, sembrano istupiditi, come se la vita scorresse a fiotti da qualche misteriosa mutilazione. Li chiami, li tocchi per richiamarne l’attenzione: non reagiscono quasi fossero vittime di un sedativo che li imbambola. Tanto che speri sgorghi, stridente e lacerante, come un clamore feroce un grido di rabbia di rivolta. Nessuno che li attenda, che li aiuti: la solitudine dei poveri. Chi li ha cacciati in Europa, venga qui a vedere il gemito strappato a questi ragazzi, i singhiozzi, questo dolore che fa paura perché muto. Ci sono certo mille eccellenti ragioni per dimostrare perché non li possiamo ospitare. Ma quale ragione possiamo dare alla menzogna, alla beffa crudele che giochiamo loro per liberarcene? La bugia è la colpa di chi si vergogna.
Racconta Raduan: «Quando stamane ci hanno riunito e siamo saliti sui pulmini per l’aeroporto ci hanno giurato che ci trasferivano a Bari, in un centro più grande. Perché diffidare? Anche se avevamo due poliziotti ciascuno al fianco che ci stringevano e nessuno di noi è un criminale. Bari… è una città che nessuno aveva mai sentito, ma non avevamo paura. È il continente, è l’Europa quella, qualcosa poi sarebbe successo. Abbiamo capito quando la porta dell’aereo si è aperta: eravamo in Tunisia. Io sono morto allora…».
Raduan è di Janduba, a cento chilometri dalla capitale , ai confini con l’Algeria. E lo confessa sottovoce: perché qui quando dici che quella è la tua città la gente ti guarda male, e gira un modo di dire, che quelli di laggiù è meglio non sposarli perché non è gente ammodo. Tutti, anche i più poveri, hanno i loro clandestini, il suo sud da tenere a bada. Raduan non prende il pulmino con gli altri. Resta a Tunisi, anche se non ha un soldo e un posto dove andare: «Non posso, mi vergogno, l’umiliazione di presentarmi a mio padre, ai miei fratelli che hanno venduto tutto per raccogliere il denaro e pagarmi il viaggio». Se ne va a ramingare sulla tangenziale che porta a Tunisi con l’andatura guardinga del cane avvezzo alle sassate. Riproverà a partire, lo ha giurato: come tutti gli altri trenta del volo. Anche se adesso sanno che c’è una legge per rimandarli indietro: solo in Europa possono trovare il denaro per pagare il debito del primo viaggio. Come un giocatore che perde ed è sempre più legato alla sua maledizione. Gettiamo via uomini come se fossero cose. Infliggiamo dolore. E questo inutilmente.
Mohssen è l’unico che ha qualcuno che l’aspetta. Una sorella, che vive nella capitale; che è corrucciata, fremente, bella da far dannare un angelo. Lui invece piange tra le sue braccia, come un bambino. Sente questo ritorno, dentro, come un chiodo: «Sono stato tre giorni in mare, il motore in panne, e ho pregato di non morire. Perché Dio mi ha fatto rinascere solo per farmi morire di nuovo? Cosa sono con duemila dinari da restituire? In una paese dove non c’è nulla, non il governo, impieghi, prospettive, niente. In Italia, in Europa forse avrei trovato, almeno avevo più possibilità: so lavorare, voglio lavorare, possibile che non serva a nessuno? Noi siamo poveri ma abbiamo aiutato quelli che fuggivano dalla Libia, con il cuore. L’Europa, l’Italia ce l’hanno un cuore?». Spero che Mohssen non tenti di misurarsi con il dolore, lo faccia scivolare dentro, ne faccia a poco a poco un’abitudine: è questa la forza di questa gente, come un tempo era la nostra. Non dimenticherò mai Ziad che ha in faccia il timore incessante della paura, la paura della paura che modella il viso dell’uomo coraggioso. Dopo aver ascoltato la sua storia di emigrante respinto, ho tentato di mettergli in mano più che potevo, per un senso di riverenza più che per compassione. E che mi ha detto no, con decisione: anche se fossero stati i mille euro che ha speso per tentare, invano, il viaggio. Questi sono gli uomini che respingiamo.

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