martedì, febbraio 07, 2012

Tra democrazia e rivoluzione permanente

"Abbasso il governo militare"
Al Cairo è palpabile un senso di esasperazione. La gente non ne può più di vedere immagini di scontri alla televisione, c’è come un senso di nausea per il troppo sangue sparso. Neppure il calcio, lo spazio di evasione e divertimento per eccellenza, è rimasto immune dalla violenza. La gente si sente insicura, si sono moltiplicati gli atti di piccola e grande criminalità, dagli scippi ai rapimenti, e la frase che mi sento ripetere più spesso in questi giorni, da persone di estrazione completamente diversa, è: mafish amn, “non c’è sicurezza”. La situazione economica, inoltre, è disastrosa: il turismo è crollato verticalmente e in tanti mi chiedono di “fare una buona pubblicità all’Egitto” quando torno in Italia.
Molti dicono che si sta peggio che prima della rivoluzione, ma sono anche coscienti che questo è normale in una fase di cambiamento così profondo e radicale. E hanno fiducia nel cambiamento, hanno fiducia che si sia messo in moto un meccanismo che, a lungo termine, costruirà un Paese migliore. Ora però vorrebbero solo tornare alla normalità, lasciare lavorare il Parlamento che hanno appena eletto, e votare – nel giro di due o tre mesi – un nuovo Presidente. Sanno che i militari stanno facendo di tutto per mantenere la loro influenza politica ed economica, ma sanno anche che non è in un anno che si demolisce un sistema di potere costruito in sessant’anni di governo assoluto da parte degli ufficiali.
La storia vive di improvvise accelerazioni – come fu la rivoluzione del gennaio 2011 – ma poi ha bisogno di tempi lunghi per maturare cambiamenti profondi. E i passaggi di transizione sono sempre gravidi di tensioni, contraddizioni e ambiguità.
Il clima celebrativo, di festa, della rivoluzione del gennaio 2011 – interrotto solo dalle provocazioni e dalle violenze degli infiltrati del regime – è un ricordo del passato. A un anno di distanza sono pochi i giovani che rimangono in piazza, animati dalla rabbia per avere visto tanti loro amici uccisi e dalla coscienza amara di una rivoluzione che sentono essergli stata confiscata dai militari e dai Fratelli Musulmani. I primi hanno protetto i manifestanti dalla repressione di Mubarak un anno fa, ma poi si sono fatti garanti della transizione con una parola d’ordine: “gradualità”. Tradotto, ciò significa che l’esercito vuole evitare che la nuova costituzione ponga i militari sotto il controllo del governo e soprattutto che renda trasparenti le loro spese. Fatto non irrilevante, l’esercito controlla dal 6% al 43% dell’economia egiziana: come dire, nessuno sa che cosa hanno in mano, ma certamente non è poco. Per i manifestanti, “gradualità” significa cambiare tutto per non cambiare nulla, cioè rimandare indefinitamente quelle riforme che estrometterebbero definitivamente i militari dalla vita politica, condizione che tanti vedono come un prerequisito di un autentico approdo alla democrazia.
I Fratelli Musulmani sono invece, apparentemente, i vincitori del momento. Storico movimento islamista fondato nel 1928 da Hasan al-Banna, hanno una lunghissima storia di contrapposizione con i governi militari che si sono succeduti dal 1952, fatta di un’alternanza tra momenti di estrema repressione e momenti di distensione. Dotati di un’organizzazione piramidale resa impenetrabile da decenni di clandestinità, sono senza dubbio il movimento più radicato nella società, potendo contare su una vasta rete di moschee, organizzazioni caritative, sportive, educative e molto altro. Ecco facilmente spiegato il loro successo alle ultime elezioni, dove hanno vinto il 46% dei seggi.
Qui sta la radice della beffa che i giovani di Piazza Tahrir non riescono a sopportare: la rivoluzione ha di fatto messo il potere in mano ai Fratelli, che si sono uniti alle proteste di piazza solo in un secondo momento e che ora criticano i sostenitori della rivoluzione permanente. A loro volta, questi ultimi accusano gli islamisti di avere stretto un patto con i militari: il mantenimento dei privilegi dell’esercito in cambio della garanzia del diritto a governare per i Fratelli. Anche se continuano a chiederne le immediate dimissioni, i manifestanti hanno già ottenuto il massimo dal Consiglio Militare, che ha accelerato al massimo le tappe verso le elezioni presidenziali, viste come il momento dell’effettivo passaggio di consegne a un governo civile e del ritorno degli ufficiali nelle caserme. Nei confronti degli islamisti, la loro posizione è però più difficile da sostenere: pochi giorni fa, quando i giovani di piazza Tahrir hanno assediato il Parlamento cercando di impedire ai deputati di entrare, hanno fatto appello alla “legittimità rivoluzionaria”, ma qualcuno gli ha fatto notare che se in Piazza Tahrir c’erano uno o due milioni di persone, 36 milioni sono andati a votare, e quasi la metà hanno scelto il partito Libertà e Giustizia, cioè i Fratelli Musulmani. Del resto questa è la democrazia.
Resta il fatto che lo slogan della rivoluzione, hurriyah, karama, ‘adala igtima’iyyah, “libertà, dignità, giustizia sociale” rimane ancora valido, e chiunque oggi assumerà le redini di questo Paese, dovrà renderne conto in futuro.

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