venerdì, novembre 02, 2007

Arrigo Levi controcorrente.

Un articolo decisamente fuori dal coro di questi tempi, una riflessione pacata (cosa ancora più rara) in cui si scorge la saggezza di un anziano che ha imparato dalla vita a non farsi travolgere dalle ventate di emotività che sembrano orientare oggi l'opinione pubblica e la classe politica.


Io sto con i romeni
ARRIGO LEVI (tratto da LaStampa.it)

In tre anni raddoppiati i romeni». È un titolo della Stampa del 3 ottobre. L’articolo riferisce, correttamente, sia opinioni allarmate di fronte a un fenomeno migratorio imponente, nuovo per un Paese di emigranti come era l’Italia fino a una generazione addietro; sia opinioni favorevoli, che spiegano le ragioni di questa ondata immigratoria, concentrata soprattutto nelle regioni più ricche del Nord, derivante dalla forte domanda insoddisfatta di manodopera: badanti, operai, braccianti agricoli, disposti a fare lavori che molti italiani non amano più fare.

Di lavoratori romeni se ne incontrano molti anche a Roma. Fra gli immigrati si distinguono per la facilità con cui imparano l’italiano; ma anche, a giudicare dalle badanti o dai vari idraulici e muratori romeni con cui io, come tanti altri, sono venuto a contatto, per l’impegno che mettono nel lavoro, e per la buona opinione che ne hanno i «padroni» italiani.

Il mio commento istintivo, di fronte alla notizia del «raddoppio in tre anni» degli immigrati dalla Romania, consiste nel dire: grazie romeni.

So che non tutti condividono questa mia opinione. E mi chiedo fino a che punto questa nasca dal fatto che anch’io sono stato emigrante. E che dell’emigrazione italiana e non italiana nelle Americhe conosco la storia e ho condiviso, in modo per mia fortuna marginale, le vicende e le sofferenze.

Nell’Argentina della mia giovinezza gli italiani erano ancora chiamati «gringos», e gli ebrei «rusos», e vi assicuro che nessuno dei due termini era elogiativo. Un «gringo» che fosse anche «ruso», come ero io, rischiava di suscitare un cumulo pauroso di pregiudizi. Per fortuna la vera alternativa era allora fra essere peronista o antiperonista, e una volta che si chiariva che io ero studente universitario, e che avevo trascorso cinque giorni (come altri 5.000 studenti sui 18 mila di tutta l'Università di Buenos Aires) a Villa Devoto, ossia il carcere, per antiperonismo, ogni altra appartenenza passava in secondo piano. A Villa Devoto, da «gringo» o «ruso» che fossi, diventai argentino.Ma ero ben consapevole che appena una generazione prima gli immigrati italiani avevano sofferto - e come - di tutti i pregiudizi che suscitava l’essere «gringo»: ignorante, analfabeta, sporco, ritenuto a priori camorrista o fannullone. Forse per queste ragioni, io ho una istintiva simpatia per quella maggioranza di immigrati romeni, o albanesi, o marocchini, che sono seri lavoratori, ma che per guadagnarsi il rispetto che meritano devono prima scalare una montagna di pregiudizi: come dovevano scalarla i nostri poveri contadini analfabeti emigrati «nelle Americhe», prima di riuscire a non essere scambiati per dei tagliagole al servizio di qualche padrino.

Li guardo, e vedo in loro l’immagine di quegli emigranti meridionali o veneti, che si imbarcavano con i loro fagotti, tra l’Otto e il Novecento, per andare a cercar fortuna Oltreoceano; pronti a fare qualsiasi lavoro (anche i lavavetri, se allora ci fossero state automobili), pur di portare a casa a sera qualche soldo. Condivido lo sconforto della gran maggioranza di loro, che aiutano l’Italia d’oggi ad aumentare il Pil, come aumenta il Pil Usa per la capacità dell’America di aprirsi agli immigrati di tutto il mondo, e che ogni giorno si sentono disprezzati, come fossero tutti assassini, tutti rapinatori, e, se donne, tutte prostitute.E provo, come italiano, vergogna e preoccupazione per la campagna di odio che si sta scatenando contro «gli zingari» o «i romeni», frutto dell’indignazione per isolati fatti di cronaca, ma anche di parole incaute e pericolose, di sapore razzista, che vengono pronunciate nei loro confronti e che ottengono un’immeritata pubblicità.

Per «integrarsi» bene, è ovvio, i nuovi immigrati hanno bisogno anche di aiuti: fra parentesi (molti lo ignorano), le province d’Italia dove trovano l’ambiente più favorevole sono quelle del Nord-Est. A Treviso e dintorni, dove gli amministratori locali, spesso leghisti, parlano talvolta male ma agiscono bene, dandosi da fare per trovare ai nuovi immigrati case e lavoro, il problema dell’integrazione dei nuovi venuti dall’Est è ridotto al minimo. I primi a opporsi all’assurda ipotesi di «chiudere le frontiere» sarebbero gli imprenditori e coltivatori che hanno assolutamente bisogno di loro.

Se poi ci sono degli immigrati delinquenti, meritano di essere trattati come gli italiani delinquenti (spesso fra l’una e l’altra delinquenza c’è uno stretto intreccio; e una collaborazione sempre più stretta tra le nostre forze di sicurezza e quelle dei nuovi partner europei è altrettanto necessaria). Ma, per favore, smettiamola di pensare che dietro ogni rapina in villa o in banca, o dietro ogni omicidio o tragedia stradale, ci sia un immigrato: il più delle volte i colpevoli sono di ineccepibili italiche origini.

Quanto alla gran maggioranza di loro, ripeto: grazie romeni. Chi è stato emigrante sa quanto sia pesante da portarsi addosso il fardello del pregiudizio; quanto sia faticoso essere un immigrante, fra gente estranea che ti guarda male. Come abbiamo potuto dimenticarlo, in appena una generazione?

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