martedì, settembre 11, 2007

11 Settembre.

11 Settembre. Me ne sono accorto solamente compilando un modulo all’ambasciata italiana, che è giusto dietro a quella americana. E di fronte all’ambasciata americana cosa c’è? Una sua piccola propaggine, l’ambasciata irachena. Lungo la via è proibito fermarsi e il dispiegamento di forze dell’ordine e militari oggi sembra più consistente del solito. Questo è l’unico luogo di Damasco dove si sia verificato, da diversi anni, un attentato terroristico. Qualche mese fa alcuni uomini sono scesi da un camioncino sparando alcuni colpi di mitra, uccidendo una delle guardie siriane dell’ambasciata. Non avessi avuto la necessità di andarci per ottenere una dichiarazione urgente da parte della nostra ambasciata, mi sarei tenuto ben alla larga da quel posto.
Tuttavia è stato interessante.
Tutte le ambasciate occupano graziose villette e sono protette – come di consueto in tutto il mondo – da inferriate o muri di cinta alti due metri. L’ambasciata americana, come le altre ambasciate americane che ho visto a Nairobi, Khartoum, e immagino ovunque non sia Europa, è un fortino. La circondano mura alte almeno cinque metri, ornate in cima da rotoli di filo spinato elettrificato. È l’emblema di una nazione che pur essendo lo sbirro del pianeta si sente insicura, assediata, costantemente sotto attacco.
Per quanto ho potuto vedere, l’unico vero assedio è quello posto da decine e decine di iracheni in fuga che fanno la coda alla porta dell’ufficio visti dell’ambasciata statunitense, cercando di elemosinare un asilo politico che difficilmente otterranno. In fondo chiedono solo la pace, la democrazia e la libertà che gli era stata promessa da Bush nel 2003. Il nostro caro George W., se è un vero politico dovrebbe sapere che le promesse vanno mantenute, ma sfortunatamente non sono gli iracheni ad eleggere il presidente statunitense. In attesa che lui finisca di ripulire la loro casa – visto che ha tanto insistito – chiedono un po’ di ospitalità in casa sua, e mi sembra il minimo.

E questo è solo uno dei tanti paradossi di un conflitto che, qui, appare in tutta la sua insensatezza.
Sono almeno due milioni i rifugiati iracheni a Damasco, il volto nascosto del conflitto in Iraq. Qui l’immigrazione è una vera emergenza, una vera invasione. Circa ventimila iracheni ogni giorno varcano il confine per fuggire la spirale di violenza che sembra risucchiare il loro paese in un buco sempre più nero. Molti di loro sono cristiani, ma di fatto non sono identificabili come un’unica categoria: donne, bambini, uomini in giacca e cravatta, malati, ricchi, poveri, analfabeti e laureati.
Tutti gli uffici che hanno a che fare con l’immigrazione sono presi d’assedio. Stamattina mi sono presentato in un centro di analisi per fare il test dell’HIV, obbligatorio per chi entri in Siria e vi risieda per più di due settimane. Almeno mille iracheni erano in coda con me – tra spinte, urla di bambini, funzionari isterici e donne dall’espressione rassegnata – ma nessuno di loro è riuscito ad ottenere il test. Devo confessare che, pensando a tutte le manifestazioni contro la guerra a cui ho partecipato, ho pensato di aver fatto almeno il minimo che mi spettava, anche se non è servito a farmi evitare la coda di stamattina... Al contrario, quando due ragazze americane un po’ spaesate si sono inserite nella coda di fianco a me, ho avuto un conato di antiamericanismo e avrei potuto vomitargli addosso di tutto, ma mi sono limitato ad un cinico “lo sapete che tutte queste persone qui intorno sono rifugiati iracheni, vero?”. Forse se anche loro fossero scese in piazza come abbiamo fatto in Europa, ci saremmo evitati tutti la coda e gli spintoni: io, loro, e gli iracheni...

L’impressione è che la popolazione siriana, che all’inizio era stata solidale con i propri vicini di casa, ne sia ora esasperata. Inspiegabilmente, raccontano i siriani, quando gli iracheni sono arrivati in Siria erano pieni zeppi di dollari. Nessuno sapeva dove li avessero presi. Forse erano semplicemente i risparmi di una vita ritirati dalle banche di Baghdad prima che fosse troppo tardi. Fatto sta che gli iracheni hanno iniziato ad affittare alloggi e fare spese a prezzi irraggiungibili per i siriani. L’inflazione è cresciuta e sono iniziati i primi malumori.
Adesso il problema non sono più i soldi, perché li hanno esauriti, il problema è il loro numero. I rifugiati iracheni sono diventati una massa ingestibile per lo Stato siriano, che ha già di che preoccuparsi dei propri problemi.
Pochi giorni fa, il presidente siriano al-Assad è stato chiaro: d’ora in poi tutti gli iracheni che vorranno entrare in Siria avranno bisogno del visto. Il visto verrà rilasciato per soli tre mesi e non sarà rinnovabile. Come dappertutto, la tolleranza zero creerà migliaia di clandestini. Ma almeno qui il problema è reale, e le alternative non sono molte, visto che l’occidente si guarda bene dal dare una mano alla Siria, che rimane uno “Stato canaglia” anche se porta il maggior peso delle conseguenze delle “nostre” guerre.
La vita di milioni di persone è stata completamente sconvolta, la rabbia, la rassegnazione, l’umiliazione sono ben visibili sul volto di tanti, la destabilizzazione di un’intera regione è oramai un fatto compiuto.

Per il resto oggi ho fatto una passeggiata nel centro storico di Damasco. Ho attraversato il Souq al-Hamidiyya, il famoso mercato coperto che sfocia nella moschea degli Omayyadi. Nella moschea si può entrare, naturalmente a piedi nudi, e quando si entra in un posto scalzi si ha la netta impressione di entrare in una casa. In questo caso il proprietario è un po’ particolare...
Ho proseguito perdendomi per i vicoli ornati dalla bouganville e osservando le tipiche porte damascene. I piccoli viottoli, le case ricavate unendo sezioni di diversi edifici, gli archivolti, le strette botteghe e le stanze sopraelevate che si sporgono dai muri portanti delle case mi ricordano tanto Genova. Tutto questo parla di un legame che si chiama Mediterraneo, e di cui oggi – in questo preciso anniversario – alcuni vorrebbero celebrare la fine. Eppure qui non c’è un muro tra il quartiere cristiano e quello musulmano, gli antiquari vendono icone cristiane e versetti del Corano incorniciati, le ragazze velate passeggiano a braccetto con le loro amiche dai capelli scoperti. I ragazzi guardano tutte e due con lo stesso interesse. Del resto i giovani non sembrano molto religiosi. “Noi non parliamo di religione, e quindi siamo amici. Certo ci riconosciamo, ma questo non è un problema”, mi ha detto un ragazzo cristiano quando gli ho chiesto di quali fossero i rapporti con i musulmani. Certo non sarà la quintessenza del dialogo, ma è convivenza. Anche questo è 11 settembre
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