venerdì, marzo 02, 2007

Il Libano sull'orlo di una nuova guerra civile?

(la foto che quest'anno ha vinto il World Press Photo, un gruppo di ragazzi di Beirut tra le macerie dopo i bombardamenti israeliani)
Malgrado un recente sondaggio della BBC sostenesse che la maggioranza dei libanesi crede ancora nel dialogo fra il mondo islamico e l'Occidente, il clma in Libano è tutt'altro che disteso. Effettivamente, il conflitto si svolge oggi più lungo la direttrice sunniti-sciiti che su quella cristiani-musulmani. Anche in questo, il Libano si conferma un microcosmo del Medio Oriente: il conflitto interno all'Islam tra sunniti - guidati da Arabia Saudita ed Egitto - e sciiti - guidati dall'Iran - è infatti acuto almeno tanto quanto la tensione tra mondo islamico e Occidente.

Riporto qui due articoli molto interessanti, uno che riguarda il preoccupante fenomeno della corsa alle armi leggere a Beirut, l'altro che spiega il conflitto tra sunniti e sciiti.


Beirut, giacca cravatta e kalashnikov


LORENZO TROMBETTA, La Stampa del 2 marzo 2007
BEIRUT - Giacca e cravatta sotto un cappotto blu. Appoggia l’elegante borsa sul bancone del bar e ordina un whisky. Nazer Z., 36 anni, di Beirut, è dirigente di filiale di una delle banche del gruppo Hariri in Libano. È sunnita, ma preferisce definirsi «libanese di Beirut», emigrato in Canada nel 1978 è tornato in patria solo nel 1995. Ordina un whisky, spegne il cellulare e inizia a parlare. Di guerra: «Sono pronto a combattere se necessario. Non vedo molte possibilità di soluzione. Gli sciiti hanno occupato il centro della mia città e stanno affondando il Paese». Nazer, titolare di passaporto canadese, potrebbe tornare all’estero, ma «questa volta rimango in Libano e lo difendo». Come si attende l’arrivo di un ciclone annunciato dai meterologi, così in Libano ogni giorno si aspetta lo scoppio della guerra. In pochi la chiamano «civile», la maggior parte preferiscono definirla «regionale», pensando al coinvolgimento di Israele, Siria e Iran. Tutti sanno però che l’eventuale conflitto investirà in maniera diretta il Paese dei Cedri spaccandolo, ancora una volta, secondo le antiche fratture politico-confessionali.«La Tripoli sunnita è pronta a difendere Beirut»; «i drusi di Jumblatt sono allertati a rispondere a ogni attacco dalle regioni sciite»; «le forze libanesi maronite di Samir Geagea possono circondare in una notte le milizie del filosiriano Sulayman Frangie nella sua roccaforte di Zghorta». Sono solo alcune delle voci che da giorni circolano. La guerra «fredda» di queste settimane, avviata lo scorso 1° dicembre quando l’opposizione guidata dal movimento sciita Hezbollah ha lanciato la sua campagna popolare contro il governo del premier sunnita Fuad Siniora, e degenerata a gennaio con gli scontri di strada a Beirut, rischia a breve di trasformarsi in un vero e proprio scontro fratricida. Dopo i fallimenti della diplomazia della Lega Araba e dopo lo stallo dell’iniziativa congiunta iraniano-saudita di febbraio, i leader del governo (sostenuto da Stati Uniti, Unione Europea e Paesi arabi del Golfo) e quelli dell’opposizione (appoggiata invece da Siria e Iran) affermano ormai chiaramente di aver rinunciato a ogni tentativo di compromesso. A un mese dal vertice della Lega Araba previsto a Riyad alla fine di marzo, i nodi irrisolti della crisi libanese rimangono quelli di sempre: il tribunale Hariri e il disarmo di Hezbollah. La Siria si oppone alla formazione della corte che dovrebbe giudicare i presunti responsabili dell’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri ucciso a Beirut nel febbraio 2005, mentre per l’esecutivo di Siniora la questione non è negoziabile. Il Partito di Dio e il suo alleato, l’Iran, rifiutano il disarmo dell’arsenale della «resistenza», mentre per Israele e Usa l’annientamento della milizia sciita, minaccia diretta per lo Stato ebraico, è la priorità in vista di un attacco preventivo contro i reattori nucleari iraniani.Intanto, migliaia di libanesi, a titolo individuale o incaricati dai rispettivi capiclan, stanno scendendo nei loro scantinati a recuperare le armi mai consegnate al termine dell’ultima guerra civile (1975-90). Persino il patriarca maronita, il cardinale Butros Nasrallah Sfeir, domenica scorsa condannava pubblicamente «la corsa al riarmo» delle milizie. Secondo la stampa locale, negli ultimi mesi il prezzo dei kalashnikov è salito da 200 a 750 dollari, mentre ogni caricatore si vende sui 20 dollari, quando prima si acquistava a due. «Tutti abbiamo le armi in casa» ammette Nazer. «Sono padre di tre bambini e non posso farmi trovare impreparato». Kalashnikov, ma anche M-16 americani e lancia razzi di piccole dimensioni, proverrebbero dall’Iraq e dai Balcani entrando in Libano dalla Siria. Solo a febbraio, tre carichi sono stati fermati alla frontiera tra i due Paesi, mentre un camion che trasportava armi leggere «destinate alla resistenza» di Hezbollah è stato intercettato l’8 febbraio dalle forze di sicurezza alla periferia orientale di Beirut. Pochi giorni dopo il duplice attentato che il 13 febbraio uccideva tre civili nella regione cristiana del Metn, a nord-est della capitale, sono stati ritrovati vari ordigni inesplosi e munizioni. Da Tripoli alla strada costiera verso Sidone, dalla valle della Beqaa alle periferie della capitale, questi ritrovamenti non sono sembrati casuali ma sono apparsi sempre di più come chiari segnali inviati da ciascuno schieramento a quello rivale: «Possiamo colpirvi».Il leader druso antisiriano Walid Jumblatt, stretto alleato di Washington, non ha negato che la propria milizia è ben armata sulle montagne dello Shuf a sud-est della capitale: «Ci sentiamo minacciati, è normale» ha detto in tv. E nei quartieri più degradati di Tripoli, roccaforte sunnita, migliaia di giovani sarebbero pronti al primo segnale dei vari shaykh a scendere armati «in difesa di Beirut e del suo premier». Hezbollah, dal canto suo, ha già da tempo messo al sicuro gli ingressi al proprio fortino della periferia meridionale, in parte distrutta dalla guerra dell’estate scorsa. E per evitare che i collegamenti costieri tra Beirut e il sud del Paese, a maggioranza sciita, possano esser interrotti dalle milizie di Jumblatt tra Sidone e la capitale, il Partito di Dio ha da tempo avviato una vasta campagna di acquisto di terre, in territorio druso a sud-est di Beirut, per aggirare l’eventuale ostacolo e assicurare la continuità territoriale tra il sud, la periferia e il cuore della città. Questo mentre a ridosso del fiume Litani, al limite settentrionale dell’area di responsabilità dei caschi blu dell’Unifil, i miliziani Hezbollah stanno allestendo la nuova linea di fuoco contro eventuali attacchi israeliani. Non possono più operare in libertà come in passato nel profondo sud ora affollato da più di 12mila militari stranieri e da circa 15mila soldati libanesi, e allora i guerriglieri sciiti preparano tunnel, trincee e bunker ammassando le armi che provengono dal «polmone della resistenza», la valle della Beqaa confinante con la Siria.L’Unifil, dopo alcune tensioni tra militari spagnoli e popolazione locale nel settore orientale della Linea Blu tra Libano e Israele, e dopo gli scontri a fuoco sul confine avvenuti all’inizio di febbraio tra esercito libanese e Tsahal, rimane in allerta ma assicura di non aver «alcun problema con Hezbollah». Per il momento così, la miccia sembra condurre a Beirut dove migliaia di Nazer Z., dei diversi schieramenti, sembrano oggi pronti ad abbandonare giacca e cravatta e imbracciare un fucile «per difendere il paese».


Liban : la fracture entre chiites et sunnites

Le Monde 1 marzo 2007


Officiellement, le conflit entre la majorité et l'opposition au Liban porte sur des questions politiques. Il n'en longe pas moins des lignes de fracture intercommunautaires. Davantage encore qu'au Liban, la gestation d'une nouvelle république en Irak passe par des divisions entre groupes confessionnels et ethniques. Ici et là, la crise a de multiples facettes et implique différents protagonistes, mais les tensions minent surtout la communauté musulmane elle-même : sunnites contre chiites. Les monarchies pétrolières du Golfe à dominante sunnite, où la rumeur fait état de prosélytisme chiite, ne sont pas à l'abri de ce souffle de fitna (discorde), considéré comme l'un des pires malheurs qui puissent frapper la Oumma, la communauté des musulmans.

Au pays du Cèdre comme dans l'ancienne Mésopotamie, le conflit n'a pas pour origine une rivalité de type religieux. Lorsque les milieux sunnites libanais dénoncent un présumé projet chiite de s'emparer de Beyrouth, ou que les dirigeants sunnites irakiens accusent leurs concitoyens chiites de chercher à faire de Bagdad une ville chiite, le danger qu'ils croient percevoir est démographique et politique. Car, dans les deux pays, ce qui est en jeu c'est le projet de reconstruction d'un Etat, dont l'un - le libanais - se dégage à peine d'une trentaine d'années de tutelle syrienne, tandis que l'autre - l'irakien - s'est enfin débarrassé d'une tout aussi longue dictature baasiste.
Ici et là, c'est l'étranger proche et/ou lointain que certains accusent de semer les germes de la discorde. Comme pour conjurer par le verbe toute responsabilité autochtone, les dénonciateurs pointent du doigt tantôt séparément et tantôt collectivement Israël, la Syrie, l'Iran et les Etats-Unis. Tous ces pays sont indiscutablement mêlés, d'une manière ou d'une autre, aux turbulences locales. Mais compte tenu du fait que, tant au Liban qu'en Irak, les communautés ont toujours été le lieu de référence et de recours de citoyens privés de leurs droits en tant que tels, les germes de division, quels que soient les semeurs, trouvent un terreau favorable à leur épanouissement.
Le communautarisme est institutionnalisé au Liban depuis l'indépendance. Le pouvoir y est réparti entre les groupes confessionnels - chrétiens et musulmans - à presque tous les niveaux. Cette répartition s'est traduite au fil des ans par un partage du gâteau entre les groupes numériquement les plus importants et des familles politiques dynastiques - à de récentes exceptions près. Les partis politiques, eux aussi, se sont constitués sur des bases confessionnelles. Au fil des crises et des affinités, de nombreuses régions se sont singularisées par une grande homogénéité communautaire.
Dès lors que, dans le Liban d'aujourd'hui, le courant politique majoritaire chiite (Amal et surtout Hezbollah) est la colonne vertébrale de l'opposition et que le gouvernement - dont le chef est institutionnellement sunnite - est soutenu par une majorité parlementaire dont le principal pilier est sunnite (le Courant du futur), les tensions politiques se doublent d'une rivalité entre familles spirituelles musulmanes, alors qu'elles sont strictement politiques côté chrétien. Des hommes de religion musulmans s'étant mis de la partie en volant au secours des politiques de "leur" camp, la confusion est totale.
A égalité avec les griefs politiques et socio-économiques, le passé refoulé de la discorde communautaire remonte à la surface, qui plonge ses racines dans les premiers temps de l'islam. Pour l'heure, et hormis deux face-à-face violents dans la rue, les divisions n'ont toutefois pas dégénéré en conflit armé à grande échelle.
En Irak, le divorce entre Arabes sunnites et chiites est pratiquement consommé. Paradoxalement, l'ancienne dictature baasiste qui, d'une certaine manière, est à l'origine des aversions réciproques, en était aussi en son temps le censeur, par l'exercice généralisé de la terreur. La communauté arabe chiite n'était pas son unique victime. Les Kurdes n'ont pas été épargnés, pas plus d'ailleurs que les Arabes sunnites jugés mal pensants. Mais les chiites, communauté majoritaire, ont payé l'un des prix les plus lourds de sa poigne de fer.

L'HEURE DE LA VENGEANCE
Dans un pays où la notion d'Etat de droit n'a jamais eu de sens, la fin de la dictature a sonné pour les chiites - ou au moins pour une partie d'entre eux - l'heure de la vengeance. Le pari du libérateur-occupant américain sur eux pour la construction du nouvel Irak a achevé de les affranchir des chaînes d'un pouvoir sunnite minoritaire qui leur était imposé depuis l'indépendance. La boîte de Pandore était ainsi ouverte pour le déclenchement du conflit, aggravé par l'implantation des réseaux djihadistes sunnites d'Al-Qaida et de ses affidés, qui frappent d'un même anathème chiites jugés déviants (de l'islam originel) et ressortissants non musulmans.
L'adoption d'un système fédéral pour le nouvel Irak dont le découpage prive les sunnites des richesses naturelles, singulièrement le pétrole, a amplifié les divisions. Depuis trois ans, les tueries succèdent aux tueries dans les deux sens ; les lieux de culte des deux communautés sont visés par des attentats en tout genre ; des déplacements massifs de population sur une base communautaire sont à l'origine de milliers de tragédies. Ceux qui en ont les moyens prennent le chemin de l'exil.
L'Irak et le Liban ne sont pas les seuls pays arabes à population mixte. Minoritaires en Arabie saoudite (près de 10 % de la population) et au Koweït (entre 30 % et 35 %), les chiites constituent environ 70 % de la population du royaume de Bahreïn. Depuis trois ans, les autorités sunnites de ces pays redoutent les répercussions des troubles en Irak au sein de ces communautés, qui, dans les années 1980, enhardies par la victoire de la révolution islamique iranienne, s'étaient révoltées contre leurs conditions de citoyens de seconde zone.
Le chaos irakien n'a certes rien d'encourageant à leurs yeux, mais les accents enflammés de certains oulémas saoudiens jetant l'opprobre sur elles ne sont pas non plus de nature à les rassurer. Certains journaux ont fait état de cas de prosélytisme chiite inspiré par l'Iran, y compris dans des pays où cette famille spirituelle n'a pas à ce jour de fidèles. "Nous suivons cette affaire de près", a récemment déclaré le monarque saoudien, Abdallah Ben Abdel Aziz, dont le titre le plus prestigieux est celui de "serviteur" des Lieux saints de La Mecque et Médine. Il s'est néanmoins déclaré convaincu que la grande famille sunnite, majoritaire au sein du monde musulman, demeurerait immune.
Mouna Naïm

Nessun commento: