martedì, gennaio 02, 2007

Somalia: primo o ultimo capitolo di una guerra?


A pochi mesi dalla loro avanzata vittoriosa in tutte le principali città somale, le truppe dell'Unione delle Corti Islamiche (UIC) sono state costrette ad una frettolosa ritirata di fronte ad un fulmineo blitzkrieg dell'esercito etiopico, che in pochi giorni ha restituito il controllo di tutta l'Etiopia centro-meridionale alle autorità del Governo Federale di Transizione (TFG). Chi sono gli “attori nascosti” in questa vicenda? Quali potranno essere gli sviluppi futuri nel volatile scenario somalo?


E' difficile – anche se non impossibile - pensare che l'azione militare condotta congiuntamente dalle truppe di Addis Abeba e dalle esili forze a disposizione del TFG basti a pacificare una nazione che da quindici anni non conosce un momento di tregua. Perché si realizzi questo best-case scenario sarebbe necessario un impegno deciso da parte della Comunità internazionale, che tuttavia sembra più propensa a rimanere dietro le quinte. Del resto, i somali hanno smesso da molti anni di confidare nel sostegno occidentale.
Più probabilmente, quindi, gli eventi degli ultimi giorni daranno luogo ad una rinnovata ondata di violenza che potrebbe assumere i contorni di una vera e propria guerra civile, con implicazioni potenzialmente gravissime per la stabilità dell'intera regione del Corno d'Africa.

Una guerra-lampo
Il 25 ottobre, il primo ministro etiopico Meles Zenawi dichiara che l'Etiopia si trovava “tecnicamente in guerra” con l'Unione delle Corti Islamiche in Somalia. Basta poco perché la guerra passi dalla tecnica alla realtà, provocando un vero e proprio ribaltamento nei rapporti di forza interni all'ex-colonia italiana.
Tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre – non a caso al termine della stagione delle piogge, quest'anno particolarmente lunga e disastrosa per la Somalia – iniziano i primi scontri a fuoco tra le truppe di Addis Abeba e i guerriglieri islamici, che stringono d'assedio Baidoa, sede del TFG.
Un'ultimo tentativo di dialogo tra le parti, dopo il fallimento dei colloqui di Khartoum sponsorizzati dalla Lega Araba, si svolge a Gibuti il 3 dicembre, senza tuttavia portare a significativi progressi nella situazione di stallo che si registra tra i belligeranti.
Nel frattempo, il 30 novembre, Meles Zenawi ottiene dal proprio parlamento l'autorizzazione a prendere tutti i provvedimenti necessari ad affrontare quella che, in seguito ad uno sconfinamento di poche truppe dell'UIC in territorio Etiopico, viene pretestuosamente definita un' “invasione somala”.
La tensione tra le parti sale: il 6 dicembre, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva la Risoluzione 1725, esprimendo l'appoggio dell'ONU alla decisione dell'Unione Africana (AU) di istituire una forza di peace-keeping multinazionale da inviare in Somalia. La Risoluzione prevede, in relazione alle necessità della futura missione di pace, deroghe all'embargo sulle armi istituito dall'ONU con la Risoluzione 733 (1992). Le Corti Islamiche contestano vivamente questa disposizione, interpretandola come un'autorizzazione implicita della Comunità Internazionale agli alleati del TFG, che da diversi mesi stanno cercando di rafforzare le deboli difese del Governo transitorio. Le forze islamiche sono tuttavia ben consapevoli del fatto che la missione di pace dell'AU non potrà essere dispiegata finché esse controlleranno tutti i principali scali aerei e marittimi del Paese. Per questo, la minaccia più concreta rimane solamente una, ed è quella di un'invasione terrestre da parte dell'esercito etiopico. Il 12 dicembre, il comandante delle truppe dell'UIC Sheikh Yusuf Indho-Ade lancia un ultimatum ad Addis Abeba: se i soldati stranieri non si ritireranno entro una settimana da suolo somalo, dovranno affrontare un attacco su vasta scala. L'ultimatum – che non ha alcun seguito – è solo l'ultimo di una serie di appelli alla guerra che, da entrambe le parti, chiamano ad un conflitto già scritto.
È il 24 dicembre, e l'Etiopia decide di compiere il primo passo. Il primo ministro dichiara – dopo mesi di smentite – che truppe etiopiche sono presenti in Somalia, e che hanno lanciato un'operazione di “auto-difesa” lungo un fronte di 400 km al confine tra i due Paesi.
Inaspettatamente, la resistenza dei guerriglieri islamici è praticamente nulla: non sembrano più i fieri mujahudin che hanno cacciato i signori della guerra da Mogadiscio e Kisimayo, ma assomigliano più ad una banda di soldati male equipaggiati e poco motivati che fuggono di fronte ad un avversario che dispone di uno degli eserciti più potenti di tutto il continente africano.
Il 27 dicembre le truppe etiopiche si impadroniscono di Jowhar, il giorno dopo è la volta di Mogadiscio e il primo gennaio anche Kisimayo, considerata la roccaforte degli islamisti, cade facilmente nelle mani degli invasori.
L'UIC nega la disfatta, parlando di una ritirata strategica ordinata con il solo fine di evitare inutili spargimenti di sangue nelle città.

Una guerra etero-diretta?
Non c'è dubbio che la lettura degli avvenimenti intercorsi in Somalia tra la vigilia di natale e l'inizio del nuovo anno debba andare al di là della constatazione di una guerra-lampo dagli esiti scontati, essendo tali avvenimenti interpretabili all'interno del più ampio quadro della lotta al terrorismo internazionale.
Non è un mistero infatti che la Somalia fosse da tempo un'”osservato speciale” agli occhi di Washington, timorosa che questo Stato senza governo potesse diventare uno sconfinato campo di addestramento per i terroristi islamici (cfr. Somalia: tra anarchia e rischio terrorismo).
Dopo la disfatta dell'ottobre 1993, gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali avevano deciso di allontanarsi, non solo militarmente ma anche politicamente, dalle vicende somale. Gli attacchi terroristici del 7 agosto 1998, che colpirono simultaneamente le ambasciate americane di Dar es-Salaam e Nairobi provocando la morte di 257 persone, costrinsero tuttavia la Comunità Internazionale ad interrogarsi sulle implicazioni della perdurante instabilità nel Corno d'Africa, che avrebbe potuto fare – e forse stava già facendo – di questa strategica regione un nuovo polo di attrazione per l'islamismo radicale anti-occidentale.
In realtà, secondo diversi analisti la minaccia terroristica in Somalia sarebbe stata decisamente inferiore a quanto ripetutamente dichiarato dall'amministrazione statunitense. Lungo la seconda metà degli anni novanta e questo primo scorcio di nuovo millennio, infatti, il Paese è stato in mano ai signori della guerra e ai clan, che hanno sopperito alla mancanza di un governo centrale. Un ambiente così instabile ed insicuro avrebbe costituito un appoggio troppo precario per le organizzazioni terroristiche internazionali, che avrebbero utilizzato la Somalia “solamente” per il traffico di armi e il riciclaggio, ma non per attività di addestramento e organizzazione.
Malgrado ciò, un gruppo islamico somalo, al-Ittihaad al-Islamiyya, figurava nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata da Washington dopo l'11 settembre, e il nome del suo leader, Sheikh Hassan Dahir Aweys, si trovava nella lista degli individui “legati al terrorismo”. Era questa, secondo l'amministrazione statunitense, la prova di una connection tra il mondo musulmano somalo e la galassia dell'islamismo internazionale.
Poste queste premesse, è facile comprendere come gli USA – tra il maggio e il settembre 2006 – non potessero assistere indifferenti di fronte alla fulminea presa del potere in tutta la Somalia centro meridionale da parte dell'Unione delle Corti Islamiche, all'interno della quale, nel frattempo, Sheikh Hassan Dahir Aweys era entrato a far parte occupando una posizione preminente.
Gli Stati Uniti tuttavia, impegnati militarmente in Afghanistan e Iraq, e ancora scottati dall'umiliazione del 1993, hanno dall'inizio optato per una guerra “per interposta persona” contro le milizie islamiche.
Dopo aver tentato di creare una fallimentare alleanza tra i signori della guerra di Mogadiscio denominata “Alleanza contro il terrorismo per la democrazia”, Washington ha deciso di puntare tutto su quello che è diventato il suo più importante alleato nella regione: l'Etiopia di Meles Zenawi.
Addis Abeba, intimorita dalla crescita dell'islamismo tra i Paesi confinanti – in Sudan ed Eritrea, pur estromesse dal potere alla fine degli anni '90, le forze politiche musulmane radicali continuano ad esercitare un'influenza considerevole sulla vita politica nazionale – non aspettava altro che un deciso sostegno esterno per intraprendere un'azione “preventiva” contro le Corti Islamiche, che rischiavano di rovesciare un governo transitorio dalla chiara impronta filo-etiopica.
A rafforzare il fronte schierato dalla parte del TFG è inoltre intervenuto anche lo Yemen, altro alleato strategico degli Stati Uniti nella battaglia contro il terrorismo di matrice islamica.
Infine, va notato come l'operazione militare etiopica – che diversi profili è configurabile come una vera e propria invasione – si sia svolta nel sostanziale silenzio delle organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite, probabilmente imbrigliate dall'ostruzionismo statunitense, non sono riuscite ad approvare una risoluzione che almeno affermasse l'illegalità dell'azione intrapresa dall'Etiopia, mentre l'Unione Africana – a cui si sono uniti IGAD (Intergovernmental Authority on Development, l'organizzazione regionale di cui fanno parte tutti i Paesi del Corno d'Africa “allargato”) e Lega Araba – non è andata al di là di un appello al ritiro delle truppe da parte del Paese invasore. Tuttavia, è chiaro come l'UA non potesse scoraggiare un intervento che di fatto creava le condizioni per l'invio della tanto attesa forza di peace keeping africana.

Una ritirata solitaria
Se la cerchia dei sostenitori del Governo Federale di Transizione è abbastanza chiara, non altrettanto si può dire per le Corti Islamiche, per le quali nei mesi passati si era parlato di un sostegno da parte dell'Egitto e dell'Eritrea – in funzione anti-Etiopica –, di un coinvolgimento di ricchi uomini d'affari della penisola arabica – in particolar modo degli Emirati Arabi Uniti, dove si trova una consistente diaspora somala – e di una rivalità tra Iran e Arabia Saudita per acquisire influenza all'interno delle Corti che l'UIC stessa avrebbe sfruttato per ottenere aiuti economici e militari da entrambi. Si era altresì sentito parlare di un coinvolgimento libico e siriano nella questione somala, voci che, assieme alle precedenti, sarebbero state confermate da un rapporto riservato stilato da un gruppo di esperti delle Nazioni Unite a novembre (cfr. Somalia: il rischio di conflitto).
Tuttavia, a giudicare dalla velocità con cui le milizie islamiche si sono sgretolate di fronte ai primi colpi dell'artiglieria etiopica, viene da pensare che l'elemento esterno, nel giudicare l'ascesa della Corti Islamiche, sia stato sovrastimato. Un tale errore di valutazione potrebbe non essere stato casuale: il coinvolgimento nella crisi di “Stati canaglia” come l'Iran, la Siria o la Libia, anche attraverso il reclutamento di mujahideen stranieri – confermato da testimoni oculari ma a quanto pare numericamente irrilevante – sono di questi tempi elementi fondamentali per rafforzare i pretesti per un intervento militare.
A ciò bisogna aggiungere il fatto che, prima e durante i combattimenti, navi da guerra statunitensi hanno pattugliato i mari di fronte alla costa somala con lo scopo di prevenire eventuali rifornimenti di armi destinati all'UIC. Stesso compito è stato svolto dall'aviazione etiopica fin dai giorni immediatamente precedenti l'avvio delle ostilità.
Di conseguenza, l'unico modo per consegnare armi ai combattenti islamici sarebbe stato via terra dall'Eritrea, indicata da Addis Abeba come il principale sponsor degli islamisti somali. In realtà, è probabile che Meles Zenawi – che contro l'Eritrea ha combattuto una guerra, e con la quale mantiene tuttora una controversia di confine – abbia enfatizzato oltre misura i rapporti tra il governo di Isaias Afwerki e l'UIC: anche il regime autoritario di Asmara si trova infatti a dover combattere la crescita del radicalismo islamico armato sul proprio suolo, e non ha certo interesse – se non esclusivamente in funzione anti-etiopica – ad aiutare oltre una certa misura una fazione politico-militare come l'UIC, che proclama di voler fare della Somalia uno Stato islamico.

Conclusioni
“Se necessario, le truppe etiopiche resteranno per settimane, per mesi, non di più” ha dichiarato il 2 gennaio alla BBC il primo ministro del TFG. Ali Mohamed Ghedi. Nello stesso momento Meles Zenawi, di fronte al parlamento di Addis Abeba, affermava di avere intenzione di ritirare l'esercito entro due settimane. È probabile che la realtà sia più vicina a ciò che ha dichiarato il primo, che a ciò che auspica il secondo. Verosimilmente, sembra che le truppe etiopiche dovranno restare in Somalia almeno fino a quando non sarà pronta la missione di peace keeping prevista dall'UA, per la quale si sono resi disponibili a inviare contingenti Uganda e Nigeria.
Nel frattempo, l'esercito e la polizia keniota stanno pattugliando il poroso confine tra Somalia e Kenya, nel tentativo di impedire la fuga di miliziani delle Corti: già dieci individui, che la polizia keniota ritiene essere alti responsabili dell'UIC, sono stati arrestati nei giorni scorsi. Tuttavia, è altamente probabile che gruppi di miliziani riescano comunque a fuggire in Kenya o a rifugiarsi in territori franchi nelle zone più remote del territorio somalo, per iniziare a riorganizzarsi in vista di future azioni di guerriglia e terrorismo.
Al di là degli avvenimenti contingenti, infine, il grande punto interrogativo che si pone oggi è quello del futuro a medio e lungo termine di uno Stato che da più di quindici anni manca di istituzioni centralizzate.
Il TFG, nei due anni durante i quali è rimasto in carica – l'accordo istitutivo ne prevede una durata di cinque anni – è rimasto paralizzato da dinamiche di potere inter-claniche che ne hanno accresciuto l'impopolarità, favorendo l'ascesa delle Corti Islamiche. Il fatto che il TFG sia il risultato di un negoziato e di un'operazione meramente proporzionale (cfr. Somalia: verso un conflitto aperto?) non hanno aiutato la sua accettazione da parte della popolazione somala, che rigetta anche le forti influenze etiopiche e occidentali cui l'esecutivo di transizione è sottoposto.
Un altro elemento di incertezza è dato dai signori della guerra, che le Corti Islamiche avevano cacciato dal Paese – con grande gioia della popolazione – e che sono tornati protetti dai carri armati di Addis Abeba. Quale collocazione avranno? Saranno inseriti nell'esecutivo, con discutibile effetto sulla credibilità dello stesso, o torneranno a costituire una minaccia per la sicurezza della popolazione e la stabilità dell'intero Paese?
È necessario l'avviamento di un processo di State-building serio e sostenibile, per la realizzazione del quale il foro più adatto sembra essere l'IGAD, ma che necessita di un deciso re-impegno della comunità internazionale nei confronti di un Paese troppo a lungo dimenticato.
In relazione a tale processo, gli Stati Uniti – che hanno sostenuto i signori della guerra e che probabilmente hanno incoraggiato l'intervento etiopico – si trovano nella scomoda posizione di dover cercare di convincere entrambi i loro alleati a retrocedere. Non ci potrà essere infatti una piena pacificazione della Somalia finché i signori della guerra conserveranno il proprio potere e finché l'Etiopia continuerà ad agire in modo così palese da “protettore” di alcuni clan a discapito di altri.
Nel medio periodo, inoltre, gli USA potrebbero trovarsi di fronte alla paradossale situazione di dover fronteggiare una crescita del terrorismo in Somalia. Secondo diversi analisti infatti le organizzazioni terroristiche operano meglio all'interno di Stati con istituzioni deboli e facilmente esposte alla corruzione – com'è appunto il TFG – che in failed States come la Somalia degli anni scorsi. Di conseguenza, se veramente vogliono arginare la minaccia terroristica in Somalia, gli USA e l'Europa – che sta iniziando a dare, anche su iniziativa dell'Italia, timidi segnali di una ripresa di interesse per la crisi somala – devono incrementare nel breve periodo gli sforzi militari e di intelligence per sventare la preparazione di attentati o la costituzione di cellule terroristiche. Gibuti, dove sia Francia che Stati Uniti possiedono basi militari, può essere l'avamposto per questo sforzo.
Ma nel lungo periodo, come già detto, la battaglia per una Somalia finalmente stabile dovrà essere combattuta con un lento processo di State-building, che dovrà condurre ad un rinnovamento della classe politica e ad un allentarsi delle dinamiche claniche.

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